Mondo e follia

Con il termine «mondo», a tutti noto, di solito intendiamo quello cosiddetto «naturale», retto da leggi e principi formulabili matematicamente che la fisica spiega con minuzia.

Il mondo così concepito è un «contenitore» dentro il quale oggetti e persone interagiscono secondo relazioni tutte coerenti e leggibili in una precisa direzione causa-effetto (uni-verso). Ora, questa visione di mondo, di derivazione Galileiana e Newtoniana, non è l'unica possibile in un discorso sulla sofferenza mentale. Tanto più che questa visione razionalista vacilla inevitabilmente sotto i progressi della stessa scienza tradizionale: relatività (Einstein), indeterminazione (Heisenberg), geometrie non euclidee... Siamo proprio sicuri di ciò che chiamiamo mondo e della sua realtà?

Apparteniamo certamente al mondo della fisica e siamo soggetti alle stesse regole che governano gli enti inanimati (anche noi cadiamo, urtiamo, ci rompiamo, ecc.). Ad esempio, in seguito a un «colpo» alla testa, gran parte delle alterazioni dei modi di sentire e agire dell’individuo che ne derivano trovano spiegazioni causali. Viviamo tuttavia, ed ecco dove il concetto di mondo si amplia necessariamente, in una dimensione umana completamente diversa da quella degli oggetti inanimati. Viviamo in un mondo di significati, il cui senso è soggetto a interpretazioni. Alcune alterazioni dei modi di essere dell’individuo, alcuni sintomi particolari e gesti estremi rimangono inspiegabili se cerchiamo di approcciarli a livello di interazioni tra atomi e molecole, mentre diventano comprensibili alla luce di una storia di vita personale e del suo contesto.

Alzo la mano1. A seconda che mi trovi in un’aula scolastica, per strada a New York o altrove, quel movimento meccanico assume un valore distinto. Quotidianamente compiamo qualcosa di più complesso di semplici movimenti: compiamo gesti, azioni intenzionali, il cui senso emerge tra tanti diversi, interpretabile ermeneuticamente di volta in volta, facendoci comprendere se voglio ora un taxi, ora chiedere la parola, ora prestare un giuramento o salutare.

La cosa interessante è che questa comprensione emerge pressoché immediata a partire dal nostro essere gli uni con gli altri in determinati contesti, nuovamente intesi non come luoghi fisici fatti di cose e persone ma come situazioni che ci ingaggiano in un senso o nell’altro. Comprendere che alzando la mano per strada a New York sto chiamando un taxi e non voglio fare una domanda non passa attraverso un’operazione riflessiva ma primariamente attraverso la condivisione storica e culturale di un certo mondo: quello degli orari, della puntualità, delle responsabilità, dei ritardi e della fretta, del denaro e dei servizi, ecc. Soltanto vivendo in questo mondo possiamo comprendere pienamente che, per urgenza o comodità, qualcuno cerchi di farsi portare a pagamento dall’altra parte della città. Chi per strada alzando il dito dicesse di stare interpellando Dio sarebbe per noi «fuori dal mondo».

Questo mondo che non abbiamo scelto ma in cui nasciamo «gettati» secondo specifiche aperture di senso, usando la terminologia heideggeriana2, è quindi un insieme storicamente e culturalmente determinato di regole, priorità, relazioni, compiti, esigenze che ci riguardano tutti in quanto in esso ci-siamo, immediatamente presso gli altri e le cose, mai neutrali ma sempre in-vista-di. È una visione dell’uomo ben diversa da quella cartesiano-kantiano tradizionale, che riduce il mondo ai contenuti della propria coscienza, finendo così per sostituire all’esperienza il pensiero di quell’esperienza e che nel cogliere il mondo attraverso le proprie categorie finisce per cogliere sempre e soltanto le proprie categorie (Liccione, 2012, pag. 53).

La tradizione nota come fenomenologia cerca essenzialmente di rivalutare la multiformità dei modi secondo cui facciamo esperienza, le diverse forme di questo nostro essere «naturalmente» e «senza filtri» diretti verso il mondo e gli altri. Non più menti o coscienze disincarnate che abitano e controllano un corpo macchina che si muove tra oggetti animati e inanimati. Nuovo oggetto di studio, o meglio, soggetto di studio è l’individuo che non solo possiede un corpo anatomico (Körper) ma che è quel corpo (Leib), che si emoziona quando è sfiorato dall’amante mentre si irrigidisce e ritrae sotto lo stesso tocco da parte della persona sbagliata, per fare un esempio.

Il rapporto con l'alterità diventa parte integrante e costitutiva di ciascuno di noi: siamo anche gli oggetti che ci interpellano con le loro forme, sotto forma di immediata possibilità di azione, così come siamo anche i nostri altri significativi, la cui eventuale perdita è vissuta al pari di una mutilazione. La distinzione soggetto-oggetto perde senso, così come il dualismo corpo x mente. Ne consegue che alterazioni come la follia non stanno nella testa ma in un rapporto alterato di questo primario essere-nel-mondo. E che i mondi, non solo quelli naturali, possano manifestare crepe o persino collassare è esperienza comune a chi è affetto da condizioni psichiatriche gravi come la schizofrenia, ma non solo. Secondo il Lancet, forse la più prestigiosa rivista medica scientifica, episodi psicotici quali allucinazioni uditive e pensieri paranoici riguarderebbero nel corso della vita, pur in forma attenuata, tra il 5-8% della popolazione sana! (Owen, Sawa, Mortensen, 2016, pag. 87).

La follia diventa un tema scientifico con l'emergere di una scienza che la rende oggetto di un sapere: la psichiatria (Costa, 2017). La visione dominante nel panorama scientifico attuale è quella della follia/schizofrenia come disturbo organico, di cui incontriamo diverse varianti: follia come destino genetico, come processo neurodegenerativo, come disturbo neuroevolutivo, tra gli altri. Attualmente però la ricerca sulla schizofrenia soffre di un momento di stasi. Nonostante l'egemonia della prospettiva neurobiologica, il dibattito sulla natura della schizofrenia rimane aperto (van Os, 2016). Sappiamo molti fatti sulla schizofrenia ma non sappiamo cosa sia (Keshavan, 2011). E a dispetto di tanti «fatti» lo psichiatra napoletano Mario Maj commenta: «l'enorme mole di o che stiamo accumulando in quest'ambito non è più percepita come indicatore di un incremento di . Piuttosto questa massa di dati è sempre più vista come segno di incertezza e confusione» (Maj, 2011, pag. 20).

Il dibattito attuale è incentrato sulla domanda se la schizofrenia sia una condizione naturale (una malattia le cui cause e sintomi dobbiamo spiegare) o umana (una condizione le cui motivazioni e manifestazioni dobbiamo comprendere). Come accennato, la prospettiva neurobiologicista incontra critiche da parte di esponenti di primo piano della psichiatria contemporanea e altri approcci si ripropongono come alternativa al riduzionismo dei «dati». Già in passato fenomenologi come Heidegger e Merleau-Ponty hanno instaurato un confronto3 serrato con la psichiatria e le neuroscienze della loro epoca, e le scienze del cervello contemporanee tornano ad attingere nuova linfa e senso da questo rinnovato interesse per la soggettività e la coscienza per dare un senso compiuto a diversi risultati delle loro ricerche (Leidlmair, 2009; Gallese, 2010, 2006; Gallagher, 2005; Gallagher & Zahavy, 2008; Rizzolatti & Sinigaglia, 2006).

Riguardo alla follia e in particolare alle psicosi diversi psichiatri fenomenologi hanno scritto, a partire da Karl Jaspers pagine poco note ma assolutamente da riscoprire: Straus, Blankemburg, Binswanger, Minkowski hanno indagato la follia come condizione umana, declinandola poi secondo direzioni diverse di autore in autore: la follia come destrutturazione sensoriale, come perdita dell'»evidenza naturale», come alterazione della temporalità, come forma di esistenza mancata.

Attualmente, nuovi autori di primo piano riportano in auge il contributo della fenomenologia, a partire dal lavoro dello psicologo americano Louis Sass e dello psichiatra danese Josef Parnas (Sass, 2014; Sass e Parnas, 2003). Il modello che propongono riporta la schizofrenia dal cervello al rapporto difettivo tra Sé e mondo: un rapporto i cui vari significati non emergono più naturalmente, impliciti, «scontati» ma diventano oggetto involontario di coscienza e di iper-riflessività. L’esperienza messa così artificiosamente a fuoco, momento per momento, si segmenta annullando via via il senso di continuità di sé, il rapporto con il tempo, il senso di essere attore e autore della propria esistenza. Le stesse azioni, movimenti, pensieri perdono di senso e coerenza e si avvertono come altro da sé: si rallentano, robotizzano, paralizzano: un’esperienza che apre la strada a sintomi positivi tipici di influenza e controllo esterno.

La schizofrenia così come ce la spieghiamo e trattiamo richiede di essere rivista e compresa anche alla luce della persona e dei suoi contesti. I motivi sono diversi e qualcuno li enuncia chiaramente (Perez-Alvarez, 2016). Vale la pena riprovare. Ce lo dice anche Alice.

Riferimenti bibliografici

  • Costa V. (2017), Teorie della follia e del disturbo psichico, Morcelliana, Brescia.
  • Gallagher S. (2005), How the Body Shapes the Mind, Oxford University Press - Clarendon Press, Oxford.
  • Gallagher S.e Zahavi D. (2007), The Phenomenological Mind: An Introduction To Philosophy of Mind and Cognitive Science, Routledge, London.
  • Gallese V. (2010), Neuroscienze e fenomenologia, Enciclopedia Treccani Terzo Millennio.
  • Gallese V. (2006), Corpo vivo, simulazione incarnata,intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenologica, in Cappuccio M. (a cura di) Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, pp. 293-326, Milano.
  • Keshavan M.S., Nasrallah H.A., Tandon T. (2011), Schizophrenia, «Just the Facts» 6. Moving ahead with the schizophrenia concept: from the elephant to the mouse. Schizophr. Res.127, 3-13.
  • Leidlmair K. (a cura di) (2009), After Cognitivism: A Reassessment of Cognitive Science and Philosophy, Springer, New York.
  • Liccione D. (2013), Psicoterapia cognitivo neuropsicologica, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Maj M. (2011), Understanding the pathophisiology of schizophrenia: are we on the wrong or on the right track? Schizophr. Res. 127, 20-21.
  • Owen M.J., Sawa A., Mortensen P.B. (2016), Schizophrenia, Lancet, 388: 86–97.
  • Pérez-Alvarez M., Garcìa-Montes J., Vallina-Fernandez O. e Perona-Garcelàn S. (2016), Rethinking Schizophrenia in the Context of the Person and their Circumstances: Seven Reasons, Front. Psychol. 7: 1650.
  • Rizzolati e Sinigaglia C. (2006), So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, Milano.
  • Sass,L.(2014), Self-disturbance and schizophrenia: structure, specificity, pathogenesis (Current issues, New directions), Schizophr. Res. 15, 5–11.
  • Sass L.A.e Parnas J.(2003), Schizophrenia, consciousness and the self, Schizophr.Bull. 29,427–444.
  • van Os J. (2016), «Schizophrenia» does not exist, Br. Med. J. 352.

Aperture di senso – letture consigliate

  • Heisenberg W. (2013), Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano.
  • Sass L. (2013), Follia e modernità, Raffaello Cortina, Milano.

  1. L’esempio prende spunto dalle riflessioni del filosofo francese Paul Ricoeur (1913-2005) in «Sé come un altro», pag. 146. 

  2. Martin Heidegger (1889-1976), filosofo tedesco, sviluppa il pensiero fenomenologico di Husserl, analizzando le strutture dell'esistenza umana e il suo inestricabile rapporto con il tempo, mettendoci nel contempo in guardia contro i rischi di una tecnicalizzazione applicata indiscriminatamente ad ogni aspetto umano.  

  3. Si pensi al ciclo di lezioni che Heidegger tenne a Zollikon (CH) tra il 1959 e il ‘69 ad un pubblico di medici, psichiatri, analisti e al confronto epistolare che ne seguì con lo psichiatra svizzero Medard Boss. 


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